Vorrei partire da una citazione di Karl Barth, uno dei più grandi teologi di questo secolo, che in un importante volume sulla teologia protestante del diciannovesimo secolo ha un capitolo magistrale su Kant. Quasi presentandone un’icona raffigurativa, afferma che Kant è un solitario che campeggia alla svolta del tempo, il tempo dell’illuminismo caratterizzato dall’assolutizzazione della ragione umana, nel quale il soggetto umano compie il grandioso progetto di ricondurre tutto a sé. Ma perché alla svolta? Perché, come osserva Karl Barth, nell’opera di Kant l’illuminismo ha visto, compreso e affermato se stesso nei suoi limiti: in altre parole, in Kant l’illuminismo trova un suo culmine, ma nello stesso tempo viene affermato nei suoi limiti. Vedremo che questi limiti non sono delle barriere, ma sono come una soglia, dei confini che aprono ad uno spazio d’ulteriorità rispetto alla stessa ragione umana
Kant è un solitario perché è stato inviso a chi, in quel tempo, era contrario all’impostazione illuminista (la teologia ortodossa cattolica e protestante; ancora all’inizio del XX secolo alcuni cattolici parlavano di “veleno kantiano”), ma anche perché nella stessa corrente di pensiero illuminista è stato uno dei pochi a porre il tema dei limiti della ragione. Proprio perché Kant ha indagato i limiti della ragione, sarà mal visto da alcuni grandi dotti eredi dell’illuminismo, come ad esempio Goethe, Herder, Schiller che criticheranno questo punto finale, ma decisivo, dell’impostazione kantiana.
Ci si potrebbe interrogare se veramente Kant sia stato un solitario, e forse qui Barth è un po’ eccessivo, perché il filosofo di Koenigsberg al suo tempo fu seguito da molti, combattuto, discusso, ma a poco a poco nelle varie università tedesche e nelle stesse facoltà di teologia venne studiato e molti si dichiaravano kantiani. Si deve però osservare come molti di questi, fin dall’inizio, si impegnarono a superare Kant. Uno dei suoi primi grandi ammiratori fu il filosofo Fichte, che addirittura pubblicò anonima la sua prima opera Saggio di una critica di ogni rivelazione, che molti attribuirono allo stesso Kant. Ma Fichte e poi tutto l’idealismo, pur dichiarandosi eredi della filosofia kantiana, tentarono di superarla e quindi di abbandonarla; e in questo senso Kant si può definire un solitario.
Non sono mancati dei ritorni a Kant, ad esempio alla fine del diciannovesimo secolo con il neokantismo, ed anche oggi vi sono filosofi, come Paul Ricoeur, che si riferiscono a Kant. La sua attualità è dovuta al la particolare tensione che vi è nella ragione kantiana, che non è né una ragione assoluta e neppure una ragione radicalmente finita, per cui è capace pertanto di entrare in rapporto con l’ulteriorità, cercando di pensarla criticamente pur nella tensione tra l’apertura ad essa e l’impossibilità di comprenderla.
Dopo questa presentazione un po’ iconografica di un Kant solitario alla svolta del tempo dell’illuminismo, passiamo adesso a tirare le file più analiticamente della sua personalità e del suo metodo. La personalità di Kant fa un tutt’uno con la sua opera, con il suo rigoroso impegno nel pensare criticamente. Kant ha adottato il motto dell’illuminismo “sapere aude”, cioè abbi il coraggio, l’ardire, addirittura l’audacia, di servirti della tua intelligenza e ne ha fatto il motivo fondamentale della sua filosofia. E’ possibile capire Kant solo in base alla sua opera, la quale ne caratterizza la personalità imperturbabilmente rigorosa e l’esclusività quasi inquietante. Più che per altri filosofi, vale per Kant la concezione secondo la quale i veri accadimenti sono quelli del pensiero. Kant non ha altra biografia che la storia del proprio filosofare: i veri avvenimenti della sua vita sono gli avvenimenti del suo pensiero, la storia del suo filosofare coincide con la sua vera biografia. Proprio per questo la biografia di Kant consiste essenzialmente nella storia dei suoi studi, ossia di come si è formato intellettualmente, e poi nella storia delle varie tappe del suo insegnamento, della carriera universitaria e delle opere.
Ci sono comunque giunte anche una serie di informazioni sulla sua vita, che mettono in luce la sua profonda umanità. Caratteristico è, ad esempio, lo scandirsi sempre uguale delle sue giornate: Kant si alzava tutte le mattine alle cinque e, dopo aver preso una o due tazze di tè, si metteva al lavoro e continuava fin verso l’una. Il suo lavoro era studiare, insegnare all’università e scrivere libri; verso l’una andava a pranzo che – qui c’è una curiosità – durava dalle tre alle quattro ore, perché era occasione di riunione, di conversazione e Kant era un brillantissimo conversatore, curioso di tutto, capace di comunicare con vivezza, allegria e anche umorismo le molte nozioni che conosceva. E’ questa una caratteristica che contrasta con la figura stereotipata di un Kant dedito soltanto al lavoro. Accanto quindi ad un rigore morale, specchio delle sue convinzioni sull’etica e della sua religiosità naturale, sia pure non confessionale, il filosofo aveva un desiderio vivissimo di stare in compagnia, in società, in modo brillante, allegro, con una spiccata capacità a creare relazioni intense, specie con i dotti e, al tempo stesso, attentissimo a regolare il proprio comportamento con massime razionali. Come ricordano i suoi biografi, anche nella cura del proprio corpo e del cibo cercava di darsi alcuni principi cui si atteneva regolarmente, tanto da essere fiero di essere riuscito a mantenere il suo corpo debole e fragile senza malattie fino agli ottant’anni. Ma forse tra la caratteristica più interessante della sua personalità sta nella tonalità del suo insegnamento. Vorrei riprendere al riguardo una citazione di Herder, suo celebre allievo, che scrive: “Ho avuto la fortuna di conoscere un filosofo che fu mio maestro. Egli aveva nel fiore dei suoi anni la lieta vivacità di un adolescente, la parola fluiva ricca di pensiero dal suo labbro, lo scherzo, lo spirito e la vivacità non lo abbandonavano un istante e la sua lezione istruttiva era il più piacevole intrattenimento. Con lo stesso spirito con cui esaminava Leibniz, Wolff e Hume eseguiva le leggi naturali di Newton, di Keplero ma coglieva anche gli scritti apparsi di Rousseau. Leggeva tutto, la sua cultura da questo punto di vista era enciclopedica, s’interessava delle scoperte più strane nel campo delle scienze naturali e della fisica”. Conclude Herder: “dolcemente costringeva a pensare personalmente. Ogni dispotismo era straniero al suo spirito”. A questa testimonianza si collega la testimonianza di Borowski, biografo del filosofo, per il quale Kant soleva ripetere che “da me non imparerete la filosofia, ma imparerete a filosofare, non a ripetere pensieri, ma a pensare”. Kant diceva ai suoi allievi di non aver ancora trovato un libro in cui sia contenuta la filosofia, per cui invitava chi lo trovava a farglielo conoscere. I libri di filosofia servono se ti aiutano ad imparare a pensare criticamente.
Questa mi pare la tonalità dell’insegnamento di Kant e c’introduce direttamente nel cuore del suo stesso pensiero, perché imparare a filosofare implica aver fiducia nella ragione, impegnarsi a esercitare la ragione. Mi è parsa molto interessante, leggendo con attenzione l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio, la frase in cui il Papa afferma che alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione: mi è subito venuto in mente il motto dell’illuminismo che Kant ha fatto proprio.
Vediamo ora come Kant ha pensato di far funzionare la sua ragione proprio nell’impostazione del metodo filosofico, che va sotto il nome di metodo critico o, con una parola un po’ più complicata, di metodo trascendentale. Già l’utilizzo dei vocaboli “critico” e “trascendentale” crea dei problemi, in quanto Kant ha introdotto nuovi concetti corrispondenti alle novità nel pensiero. Un pensiero innovativo, originale, ha bisogno anche di parole nuove o anche di parole prese dalla tradizione filosofica, ma cui poi è cambiato il significato. L’aspetto più complicato è che, in certe pagine, compare un termine usato a volte nel significato vecchio e a volte nel significato nuovo e in certi casi, come per “trascendentale”, in tre accezioni diverse. Quindi a chi si appresta ad analizzare un testo kantiano si presentano difficoltà non da poco e, per gli studenti, difficoltà enormi.
Vediamo allora qual è il significato preciso che in Kant hanno queste due parole “metodo critico” e “metodo trascendentale”. Riguardo al primo, che la filosofia sia stata critica è una sua costante, nel senso che la filosofia ha sempre insegnato alle persone, da Socrate in avanti, a ragionare con la propria testa, a vedere come stanno le cose con i propri occhi, a non accontentarsi di ciò che viene tramandato tradizionalmente, a non limitarsi a dare qualcosa per presupposto. L’espressione, ripresa anche da S. Tommaso, “amicus Plato, sed magis amica veritas“, è mio amico Platone, ossia i grandi autori dell’antichità, ma è ancora più mia amica la verità, ben rappresenta la tipicità dell’indagine filosofica. Ebbene Kant si mette, diciamo così, in questo filone di criticità della filosofia, ma le dà una caratteristica del tutto particolare. La ragione, dice Kant, per essere critica non deve solo aprire gli occhi di fronte alle cose che le si presentano, ma deve indagare innanzitutto su se stessa per vagliare le proprie possibilità e i propri limiti.
La prima grande domanda filosofica su cui si ritma la riflessione di Kant é: che cosa posso sapere, dove quel “posso sapere” implica proprio l’indagine sulle capacità della mente umana di pervenire alla conoscenza scientifica, ossia ad un sapere perfettamente valido. La criticità kantina implica quindi una svolta radicale, che consiste nel sottoporre la ragione ad un’indagine approfondita e rigorosa per sapere quali sono i suoi limiti, le sue possibilità e anche il modo con cui procede.
Qui Kant si distanzia dall’impostazione degli empiristi e dei razionalisti. Secondo gli empiristi la nostra conoscenza e quindi le possibilità che noi abbiamo di conoscere, derivano dall’esperienza sensibile, per cui riusciamo a conoscere tanto quanto ci deriva dall’esperienza sensibile. Locke, ad esempio, con la sua celebre riflessione sulle idee, spiegava come ogni nostra idea nasce da un’impressione sensibile precedente. Ma se ogni nostra idea nasce soltanto da un’impressione sensibile, per cui al massimo possiamo effettuare delle generalizzazioni induttive, Kant constata che si termina nello scetticismo, come vi è giunto Hume.
Secondo il razionalismo della scuola di Wolff e di Leibniz, a cui Kant era stato introdotto dal professore di logica e metafisica Martin Knutzen all’università di Koenigsberg, le nostre possibilità di conoscere hanno come punto di partenza le idee innate, i principi innati presenti nella nostra mente che noi vediamo e intuiamo direttamente e dai quali possiamo dedurre una serie di conoscenze e costruire il sapere. Per Kant quest’impostazione presume troppo delle nostre capacità conoscitive e finisce in quello che lui chiama dogmatismo, cioè in affermazioni filosofiche che non sono veramente fondate, che non sono autenticamente dimostrabili con certezza.
Kant invece pensa che il metodo della ragione sia quello del criticismo. In che modo la ragione riflette su se stessa e sulle proprie possibilità?
Due sono le condizioni perché vi sia conoscenza: le condizioni materiali che sono date dall’esperienza sensibile, per mezzo della quale riceviamo delle sensazioni, e le condizioni della conoscibilità degli oggetti, che sono i modi a priori di conoscere del soggetto, mediante i quali i dati dall’esperienza sono organizzati, unificati, strutturati, resi intelligibili. Tali principi sono a priori, cioè non derivati a posteriori dall’esperienza, sono strutturali nella nostra ragione.
M’interessa sottolineare come il metodo trascendentale di Kant sia proprio il metodo che va alla ricerca delle condizioni di possibilità a priori del nostro conoscere. Nella prefazione della seconda edizione della Critica della Ragion pura, Kant presenta il criticismo come una seconda rivoluzione copernicana, in quanto vi è un capovolgimento radicale del rapporto tra soggetto e oggetto rispetto al pensiero tradizionale. Come Copernico, per riuscire a comprendere movimenti celesti, che sembravano sconclusionati e di cui non si trovava una legge, ha pensato che era necessario non porre la terra al centro dell’universo, come faceva Tolomeo, ma il sole, così in filosofia bisogna fare qualcosa di simile, mettendo al centro della conoscenza non l’oggetto che agisce su di noi quanto piuttosto il soggetto che, con le sue categorie, le sue strutture e forme di pensiero, opera sui dati che vengono dall’esperienza. Questa seconda rivoluzione copernicana è in profonda sintonia con l’illuminismo, che mette l’uomo al centro dell’universo. La natura, per come si presenta a noi, è frutto di un’elaborazione del soggetto, che veramente da questo punto di vista diventa il centro dell’attività conoscitiva: non per nulla Kant parlerà dell’io penso come del fattore decisivo, come dell’orizzonte intrascendibile del conoscere.
A questo riguardo Kant è di grande attualità, nel senso che oggi la riflessione sulla scienza è sempre più concorde nel affermare che essa non è un puro e semplice rispecchiamento degli oggetti che indaga, ma un’elaborazione di questi dati in base ai nostri paradigmi, alle nostre precomprensioni, ai nostri schemi mentali. In fondo noi riusciamo cogliamo della realtà solo ciò che passa nelle reti delle nostre strutture mentali.
Vi è poi un’altra conseguenza dell’impostazione kantiana, sebbene vale la pena prima sottolineare come Kant non abbia avuto un metodo e poi i risultati dalla sua applicazione, nel senso che il metodo stesso è nato dai risultati della sua riflessione e questi risultati, oltre che aver influenzato il metodo, sono stati una conseguenza della sua adozione. Il metodo trascendentale nasce con il maturare del suo pensiero, avendo Kant sia prima che dopo ha utilizzato anche i metodi più tradizionali dell’induzione e della deduzione.
Ma, come anticipato, una delle conseguenze più importanti del metodo critico è di potersi applicare solo alla conoscenza scientifica. Infatti esso non riesce a cogliere le cose in se stesse, ma solo i fenomeni, cioè gli oggetti quali ci appaiono e che vengono elaborati dall’intervento unificante, ordinante, selezionante delle forme e delle categorie a priori della nostra sensibilità e del nostro intelletto. Qui abbiamo il primo grande limite che Kant pone alla scienza, la quale non penetra la realtà più profonda delle cose, le cose in sé. In questo modo, mentre da un lato viene dato alla ragione umana il più grande spazio nel lavoro scientifico, dall’altro vengono posti dei limiti ben precisi, in quanto la scienza può elaborare solo ciò che rientra nell’esperienza possibile e nell’ambito delle proprie categorie. La filosofia, e in particolare quella che Kant chiamerà la metafisica critica, riesce a portare la ragione fino ai suoi limiti, ai suoi confini, che aprono uno spazio a campi di ulteriorità che sono quelli dell’etica, della religione e dell’estetica.
Vediamo ora come Kant apre questo spazio dell’etica e della religione. La scienza deve limitarsi al campo dello sperimentabile, organizzato secondo leggi necessarie della fisica newtoniana, le leggi di causa effetto, di relazione, di modalità, eccetera. Ebbene, l’uomo fa prova dell’esperienza etica e della libertà, che lo introduce in un campo che non è quello della sensibilità ma dell’intelligibile, il campo del noumenico, di ciò che è pensato, di una realtà superiore a quella della sensibilità empirica. Kant parte dalla constatazione dell’esistenza in noi della legge morale, che è un fatto della ragione. E’ tipicamente umano, secondo Kant, che ci sono delle norme etiche che valgono non per l’utilità che noi ne possiamo trarre, ma in se stesse, per cui bisogna agire in un certo modo perché è giusto, non per il vantaggio che ne consegue.
Anche qui Kant svolge una riflessione trascendentale sulle condizioni di possibilità dell’esperienza etica: la legge morale, che comanda in modo incondizionato di rispettarla in quanto legge, si determina da sé e non deriva da qualche cosa di esterno, da un utilità sensibile e neppure da un comando di Dio, seguendo il quale si raggiunge un premio. La legge morale veramente autentica è autonoma e a priori, cioè si trova in noi, è fondato su un comandamento della ragione, non imposta alla volontà dal di fuori o dalla sensibilità.
Quali sono le ulteriori condizioni di possibilità di questa legge morale? Anzitutto la libertà dell’uomo: l’imperativo morale implica che non si imponga necessariamente. Se l’uomo fosse regolato solo dalle leggi necessitanti del suo impulso, al massimo si potrebbe tentare di regolarlo favorendo un impulso o reprimendo un altro, per cui alzando il prezzo a fronte di un vantaggio concreto, la coscienza cederebbe. Per Kant, invece, l’uomo ha la libertà di dire sì alla legge morale o di dire no anche alla lusinga più allettante per essere fedele al comando della legge morale La libertà è connessa strettamente con la legge morale e ci apre a quello che è il regno della libertà, quel regno in cui la scienza non riesce a dire nulla in quanto si limita a collegare fenomeni con connessioni necessarie.
La scienza psicologica molte volte cerca di spiegare un comportamento in base agli antecedenti, ricerca un trauma del passato oppure nel gioco delle leggi psicologiche, e questa ricerca approfondita ha permesso di aumentare in modo rilevante le conoscenze sulla psiche umana. Eppure, anch’essa non può entrare in quel sacrario della coscienza dove la persona è libera di aderire o meno al comando etico. Ciò ci caratterizza come persone umane non è tanto la capacità di organizzare il mondo con le nostre categorie scientifiche, ma la nostra radicale capacità di rispondere liberamente a un comando etico, alla legge morale, al senso del dovere, al senso dell’onestà, che per Kant costituisce il segno più profondo della nostra ragione ed è anche il marchio più profondo della nostra personalità.
Le espressioni utilizzate da Kant a questo riguardo nella Fondazione della metafisica dei costumi e nella Critica della Ragion pratica sono giustamente note: “Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come principio di una legislazione universale”, “Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, che nella persona di un altro, sempre come un fine e mai come semplice mezzo” e “Agisci in modo che la volontà, con la sua massima, possa considerarsi universalmente legislatrice rispetto a sé medesima”. L’attualità di queste formula è a tutti evidente, come sarebbe attuale una riflessione su ciò che Kant chiamava il regno dei fini, cioè quella comunità umana dove veramente ogni persona è trattata come fine e nella quali questi fini che sono le varie persone non sono in contrasto, in opposizione fra di loro, ma armonicamente connessi e coniugati. Un idea limite, un idea fine per il cammino della storia umana che Kant aveva ben presente e che rimane un’utopia nel senso positivo, un qualcosa da raggiungere e anche da sognare, e metro per giudicare quanto ancora vi siamo lontani.
Anche l’etica, pur così di grande valore in Kant, ha i suoi limiti e la ragione che riflette giunge fino a quei confini in cui l’etica rimanda oltre se stessa, apre un’ulteriore spazio, quello della religione. Ricordiamo le tre domande fondamentali che pone Kant alla sua ricerca filosofica: che cosa posso conoscere, che cosa debbo fare, che cosa mi è lecito sperare Un primo livello di indagine riguarda cosa mi è lecito sperare se mi comporto bene moralmente? Kant è rigorosissimo nel ribadire che non debbo comportarmi moralmente per raggiungere la felicità, ma al tempo stesso afferma che la legge morale comanda che virtù e felicità siano unite. La virtù è il bene supremo. Tuttavia essa non è ancora il bene nella sua compiutezza e interezza. Questo è soltanto la virtù cui si aggiunga anche la felicità che le compete per la sua stessa natura.
E qui l’etica trova il suo primo scacco, perché nonostante tutti i nostri sforzi noi non riusciamo a raggiungere la perfetta virtù, né riusciamo a congiungere in modo perfettamente corrispondente alla virtù di ciascuno la felicità. Per la nostra debolezza morale e fisica, dovuta al non perfetto dominio della natura, non possiamo in questo mondo pervenire alla perfetta felicità: basta un raffreddore un po’ più forte o una malattia perché la nostra felicità se ne vada via.
La legge morale comanda dunque la santità e comanda di unire la virtù alla felicità: se questo però non è possibile vuol dire che la legge morale è vana e inutile? se il sommo bene è impossibile secondo regole pratiche, anche la legge morale che prescrive di promuoverlo deve essere fantastica e ordinata a fini immaginari e quindi in sé falsa? Da questo assurdo si esce postulando l’esistenza di Dio e di una vita futura, che faccia corrispondere in un altro mondo quella felicità di cui è degna la persona virtuosa e che non si realizza in questo mondo.
Di conseguenza Dio e una vita futura sono due presupposti secondo i principi della ragion pura, inseparabili dall’obbligazione a noi imposta della medesima ragion pura. Kant quindi dirà che la religione da un lato coglie le leggi morali come comandamenti divini ma, dall’altro lato, è soprattutto la speranza di raggiungere quella felicità che è corrispondente a quanto noi, con il nostro comportamento etico, ci siamo resi degni di avere.
Si apre qui il campo della religione naturale ma anche quello della religione positiva. Kant infatti ha sottolineato grandemente l’importanza della legge morale e della libertà, ma è anche colui che ha saputo cogliere la situazione di scacco in cui la libertà umana si trova, cioè quella condizione che lui ha chiamato di male radicale e che la tradizione religiosa chiamava di peccato originale. Kant ha riflettuto molto sul tema del male radicale, che sembra viziare alla base la stessa libertà umana e tuttavia non la vizia del tutto, perché altrimenti noi non riusciremmo più a cogliere il comando etico ed a rispondere liberamente ad esso.
Tuttavia ci troviamo in una situazione in cui la libertà sembra viziata da una massima che sconvolge la nostra dirittura morale, secondo la quale siamo disponibili ad agire non solo per retta coscienza e per retta intenzione ma anche per il nostro vantaggio. Questa massima che si insinua nella nostra ragione, Kant la vede come il male radicale, insieme ad un altro tipo di comportamento, quello per cui nelle comunità il vicino diventa un punto di riferimento per l’invidia, il contrasto, il tentativo di rivaleggiare.
Ebbene, nonostante tutto, deve essere possibile vincere questa situazione e allora, siccome sembra impossibile che una ragione cattiva si faccia da se stessa buona, la stessa ragione riflettendo sulle condizioni di possibilità del nostro agire morale, si apre all’idea di un aiuto soprannaturale. Ma qui Kant non solo si scontra con lo scacco della ragione che voleva essere autonoma nel campo etico, ma si trova di fronte anche a un paradosso: come è possibile che Dio mi possa aiutare? Per Kant un aiuto di Dio che non passasse attraverso la nostra libertà sarebbe una pura superstizione, e il grande filosofo è stato un critico acerrimo della religiosità superstiziosa, che pensa di ricorrere a Dio con il culto per trovare un alibi al proprio disimpegno morale. Di fronte a questo paradosso, per cui da un lato abbiamo bisogno di un aiuto e dall’altro lato non si vede come questo aiuto possa sostituire la nostra libertà, Kant ha avuto il coraggio di dire che la ragione si trova in un’antinomia con se stessa. Il merito di Kant è di essersi fermato di fronte a questa antinomia, di avere riconosciuto lo scacco della ragione di fronte al soprannaturale cristiano cui la ragione si apre senza però riuscire a ricomprenderlo in sé.
Vorrei concludere con una citazione molto bella di un grande studioso di Kant, un filosofo di questo secolo, Karl Jaspers, il quale conclude una sua opera su Kant con queste parole: “Noi siamo trascinati da Kant sul suo cammino da un pensatore che si è costruito una casa al margine della strada per riposare dove né lui né noi dobbiamo fermarci”.
NOTA: testo, rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta l’8.2.2001 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.